Ogni anno in Italia vengono prodotti quasi 45 milioni di tonnellate di rifiuti inerti, vengono sfruttate 2.500 cave e circa 15 mila sono quelle esaurite ed abbandonate. Nel complesso oltre il 62,5% di quanto viene cavato è composto da inerti (come sabbia e ghiaia) che producono non pochi danni ambientali e al paesaggio. Per questo trasformare un problema come i rifiuti derivati dalle demolizioni (un tema di proporzioni enormi nel centro Italia dopo i terremoti di questi mesi) in una risorsa, attraverso una ri-trasformazione in mattoni è diventato fondamentale per una più concreta tutela ambientale. Ma ridurre il prelievo di materie prime e l’impatto delle cave sul paesaggio non è solo con un vantaggio per il territorio: “attraverso il riutilizzo dei rifiuti aggregati e degli inerti provenienti dalle demolizioni si avvierebbe una nuova filiera green in grado di produrre nuovi posti di lavoro, valorizzare ricerca e innovazione, contribuire a ridurre le emissioni di gas di serra. Oggi è possibile dare risposta a questi problemi, lo dimostrano le esperienze dei tanti Paesi dove ormai da anni si sta riducendo la quantità di materiali estratti con una forte spinta al riutilizzo promosso anche con regole di tutela del paesaggio e gestione delle attività” ha spiegato l’ong. “Un punto va sottolineato con attenzione – ha spiegato Edoardo Zanchini vicepresidente di Legambiente -, oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici per non utilizzare materiali provenienti da riciclo nelle costruzioni. È dimostro che i materiali da riciclo e recupero di aggregati possono essere assolutamente competitivi sia sul piano tecnico che su quello economico”. Eppure attualmente in Italia la capacità di recupero di inerti sfiora a malapena il 10% (anche se con differenze significative tra Regione e Regione e con alcune esperienze d’eccellenza che mostrano tutta la fattibilità dell’impresa), mentre in Europa l’Olanda con il 90% dei materiali recuperati è la nazione più virtuosa, seguita da Belgio (87%) e Germania (86,3%).
Come fare per cambiare questo trend? Si può cominciare con il far conoscere le possibilità dell’eco-abitare all’opinione pubblica. Per questo “Tra gli obiettivi del rapporto vi è quello di rendere comprensibile ai non addetti ai lavori la sostenibilità e la salubrità dei diversi materiali e la loro capacità di contribuire a una gestione sempre più efficiente dei cicli dell’energia e dell’acqua e di altre risorse naturali” ha aggiunto Zanchini. “L’intenzione è anche quella di fotografare i cambiamenti in corso nel modo di progettare e di costruire, che caratterizzano quello che oggi viene chiamato green building, per aiutare i cittadini nelle loro scelte e per rendere espliciti i risultati che la ricerca e l’innovazione in questo settore stanno già producendo”. Perché questa prospettiva prenda davvero piede in Italia producendo risultati diffusi e vantaggi generali “adesso occorrono politiche che accompagnino questa prospettiva con scelte chiare, che aiutino a superare le barriere tecniche e giuridiche, ma anche di informazione” ha concluso Zanchini.
In Europa qualcosa si muove. Un esempio è la Direttiva 31/2010 che rispetto all’energia utilizzata rappresenta una chiara indicazione di cambiamento per il settore delle costruzioni. Dal 1° gennaio 2019, infatti, tutti i nuovi edifici pubblici dell’Unione europea e dal 1° gennaio 2021 tutti quelli nuovi ma privati, dovranno essere “near zero energy”, ossia garantire prestazioni di rendimento tali da non aver bisogno di apporti per il riscaldamento ed il raffrescamento, oppure dovranno soddisfarli attraverso l’apporto di fonti rinnovabili. E l’Italia cosa spetta? Per ora solo il referendum. Ma la direttiva europea 98/2008 ci obbliga a raggiungere, entro il 2020, un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione e perché questo processo vada avanti serve da subito un impegno concreto del Governo, visto che ancora oggi nei cantieri dei lavori pubblici e privati, i capitolati sono una barriera insormontabile. Come mai? Nel Belpaese, infatti, pur essendo previsto l’obbligo di utilizzo di alcune categorie di materiali sostenibili, di fatto è impedito l’uso di quelli provenienti dal riciclo. Eppure solo aumentando la quantità di pneumatici fuori uso recuperati fino a raddoppiarla nel 2020, potremmo riutilizzarli per riasfaltare quasi 40.000 km di strade, con un risparmio energetico (considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio), di oltre 6,5 miliardi di kWh, pari al consumo annuo di una città come Modena, con un taglio alle emissioni di gas serra pari a 700 mila tonnellate. Non male è?